Le carote di Viterbo

Preparazione:

Solo 60 anni fa lo scrittore gastronomo Leone Gessi raccontava nel suo simpatico volumetto "Le soste del buongustaio", che rivolgendo ai viterbesi la domanda: "Che specialità di cibi avete a Viterbo?", aveva ricevuto sempre la stessa risposta: le carote. Se oggi rivolgessimo la stessa domanda a cento viterbesi, forse appena uno ci risponderebbe alla stessa maniera. Più recentemente, nella "Guida ai misteri e segreti del Lazio" Ed. Sugar, si legge a pag 343 " Le carote dolci sono già dolci di per se stesse, e lo diventano ancora di più quando vengono conservate a lungo in una specie di sciroppo: una specialità insolita e squisita, che manderebbe in estasi americani e tedeschi, ma che i viterbesi non sanno o non vogliono valorizzare". Perché allora questa famosa e gustosissima preparazione gastronomica è stata dimenticata o, per meglio dire, è scomparsa dalle nostre mense; in che cosa consisteva, quando e come era nata questa ricetta? Purtroppo a molti interrogativi non possiamo dare una risposta esauriente, ma vediamo almeno di cosa si trattava. In primo luogo l'originalità consisteva nel fatto che la base di questa preparazione erano delle carote particolari, cioè delle carote di colore viola; non le barbabietole, chiamate anche rapette rosse, come qualcuno crede, tratto forse in inganno dal grave errore di identità commesso da Ada Boni nel famosissimo "Talismano della felicità", dove la pur brava e colta scrittrice intitola la ricetta in questione "Barbabietole in bagno aromatico (Carote di Viterbo)", ribadendo poi erroneamente nel testo che "per questa preparazione si usano non le comuni barbabietole rotonde, ma quelle a forma allungata come le carote gialle... A Viterbo è facile procurarsi di queste barbabietole secche, le quali si presentano attorcigliate a spirale e di un colore scuro". Insomma erano carote o barbabietole? Erano vere carote !! Ed esattamente una particolare cultivar color viola delle comunissime carote o "Daucus carota var. sativa", della famiglia delle Ombrellifere, di cui si conoscono numerose varietà di colore ( bianco, rosso, giallo, viola ) e di forma (corte, lunghe, cilindriche, coniche, a trottola). Oggi, però, quelle carote colore viola, che i viterbesi chiamavano anche pastinache, sono divenute introvabili. E in ciò, sta forse l'unico motivo della scomparsa di questa preparazione in agrodolce. Il perché  è ben noto agli agronomi esperti, i quali sanno che coltivando nel raggio di 600-800 metri delle carote gialle si ottiene la degenerazione delle altre cultivar e in special modo di quelle viola per cui tutte divengono gialle. Quindi  perduta la materia prima, addio "Carote di Viterbo". Ma come e quando era nata questa originalissima ricetta? Le notizie al riguardo che abbiamo trovato sono le seguenti. Nel Libro delle spese del Convento della SS .Trinità di Viterbo, in data dicembre 1467 sono riportate le spese sostenute dal frate Cristoforo, che paga un bolognino di dazio alla Porta del Popolo “per entratura delle carote che io portava al Patre Generale [degli Agostiniani]”. Il dazio pagato e il destinatario del dono (il Padre Generale), dimostrano che si trattava di un prodotto di pregio e non di semplici carote. Altra citazione interessante è quella che fa il Platina nel suo libro "De onesta voluptate et valetudine", pubblicato nel 1487, dove al capitolo 108 del libro IV, intitolato "carota e pastinaca", dice ad un certo punto "le carote ortensi sono più gustose, soprattutto quelle di Viterbo". Un terzo riferimento alle nostre carote, relativo allo stesso periodo, che potrebbe essere collegato con questo tipo di preparazione, è stato ritrovato nell'archivio del Comune di Vitorchiano (VT), in una lettera inviata dai Conservatori di Roma in data 1488 (Roma die sexta Martii 1488) nella quale si chiedeva al destinatario delle lettera: "Per uso dello nostro et per possere fare honore in questo tempo quatragesimale ad alcuni forestieri che adcaschano alla nostra mensa, haveriamo caro essere serviti da voi de qualche carota per posserla confectare"; si presume quindi che dovesse trattarsi di un particolare tipo di carote, introvabili a Roma, da poter confezionare poi alla maniera viterbese. Tutti questi elementi molto interessanti, pur lasciando sempre aperto l'interrogativo dell'origine di questo piatto, ci fanno pensare che questa preparazione potrebbe risalire addirittura alla fine del Medioevo, quando era diffusa l’abitudine di preparare “confetture” di vario tipo, ossia composte vegetali agrodolci, cotte nello zucchero e molto ricche di spezie,. Una ricetta di questa preparazione, trascritta per esteso, è stata ritrovata soltanto alcuni anni fa dal dottor Attilio Carosi fra i documenti della Biblioteca Comunale di Viterbo, in una lettera, datata 25 Novembre 1827, che un notabile viterbese inviava ad un conoscente di Roma. Le carote di Viterbo avevano infatti acquistato tale fama da essere incluse, secondo alcuni cronisti, nei pranzi fatti a Viterbo in onore di Giuseppe Garibaldi nel 1876. Inoltre sappiamo per certo che fin dal 1800 le Suore del Convento di S. Rosa ne curavano amorevolmente la coltivazione e la preparazione. Poi dalle suore di S. Rosa alle famiglie benestanti viterbesi, prevalenti consumatrici di queste carote, il passo è stato  breve, poiché era usanza di tutte le suore dei monasteri di ripagare con piccoli doni gastronomici i propri benefattori. Dalla cerchia ristretta di queste famiglie, che fino a pochi anni fa hanno conservato l'abitudine di preparare e utilizzare questa confettura, si passò successivamente, per merito degli Schenardi, proprietari del rinomato antico Caffé, alla produzione artigianale, per cui. questo prodotto, confezionato in caratteristici vasetti di ceramica, uscì fuori dalle mura della città, fino ad ottenere come riconoscimento un premio all'Esposizione del 1879. Tra i più noti estimatori di questo prodotto sembra vi fosse anche la famiglia reale dei Savoia, tanto che fino a quando il Cav. Ciardi, noto droghiere di Viterbo, continuò a confezionarle, una signora di Montefiascone ne inviava annualmente una certa quantità al re Umberto in esilio in Portogallo.

Oggi soltanto gli archi resistono, perché le carote sono ormai scomparse, almeno la particolare cultivar viola, e con esse anche la preparazione relativa. Ma noi, che siamo rimasti forse gli ultimi produttori casalinghi di questa confettura, riteniamo, e lo diciamo per esperienza diretta, che anche usando la comunissima carota gialla, che dal punto di vista del sapore è identica a quella viola, si può ottenere lo stesso risultato, poiché la caratteristica della ricetta sta nel condimento e nel tipo di preparazione, per cui rimane identico il gusto originalissimo ed anche il sapore. Questa preparazione trova appassionati estimatori, soprattutto quando viene usata come accompagnamento a vari tipi di bollito,come pure quando viene usata con carni insaccate cotte, come la “Coppa di testa della Tuscia” e il “Salame cotto viterbese”, due prodotti tipici delle nostre industrie manifatturiere di derivati del maiale.

  • Curiosità:

    Prima dell’ultima guerra queste carote furono offerte anche a Mussolini, quando venne in visita a Viterbo; di questo episodio abbiamo la testimonianza dell’arguto poeta dialettale viterbese Enrico Canevari che in una poesia, intitolata "la venuta di Mussolini a Viterbo", dice :

    ....Ma quanno doppo stavono a magnà
    Portorno un piatto sopra un gabbarè,
    lue fece ar cammeriere: E que che adè?
    Questa, Eccellenza, è 'na specialità,
    Queste so' le carote del paese
    Che in gnissun antro loco troverà
    Perché è 'na pianta che sortanto fà
    Nel nostro territorio viterbese
    Esso se mise a ride e fa: Scusate:
    Ma allora le carote de lo Stato
    Che faccio piantà io, 'n ce le contate?
    Che siono mejjo queste, nun ce credo:
    In quanto ad archi, m'ete superato;
    Ma pe' carote tanto, nun la cedo.